martedì 21 dicembre 2010

Se sei bravo ti tirano le pietre...

Episodio 1: Ieri sera per lavoro mi trovavo ad un dibattito pubblico, moderato da una brava e nota giornalista. Al termine dell'incontro moltissime persone, tra cui giornalisti e sedicenti tali, si sono diretti sotto al palco per scambiare qualche chiacchiera con la collega 'guest' e magari tentare di lasciare impressa nella sua memoria, un brandello di disperazione che, al giorno d'oggi, è una carta equipollente al curriculum vitae.

Con mia grandissima sorpresa la sottoscritta, che per anni è stata la regina delle disperate, non solo non ha elemosinato attenzione ma non si è nemmeno avvicinata sperando che la fama altrui potesse in qualche modo contagiarla! Apparentemente potrebbe sembrare una cazzata, ma mi sono chiesta: quante volte ci si deve vendere come forma/immagine e non come contenuto?

Sinceramente la parte della povera precaria sfigata sono stufa di farla e, se proprio proprio, voglio piacere, non fare compassione...

Episodio 2: Sere fa, un collega fotografo allestiva una mostra con scatti 'a caso' o giù di lì. Mi raccontava che, dopo aver lavorato praticamente per tutti, era letteralmente svuotato dal sistema che premia i furbi, svenditori di materiale, e i principianti che "pur di cominciare accetto di tutto". "Me lo stanno facendo odiare questo mestiere, ho bisogno di estraniarmi, ecco perchè espongo queste foto un po' alla cazzo" e nel suo sbotto ho riconosciuto tanta strada già vista. Cosa scatti, cosa scrivi, a chi importa più davvero? L'essenziale è coprire gli spazi bianchi, al contenuto guardiamo poi. Forse.

La senzazione che rimane è che non si possa vincere mai...

mercoledì 15 dicembre 2010

Quando i Ricci & Poveri ci fanno sentire a casa


Il primo sorriso della giornata me lo regala LaCri, from Belgium. Ieri, mi dice, a una radio locale hanno trasmesso “Sarà perché ti amo”, famosissima canzone dei RICCI  e Poveri, e questo momento di ilarità suppongo l’abbia fatta sentire meno lontana da casa. Suppongo perché a me è capitata la stessa cosa, altre volte. E a pensarci bene, è una sensazione tanto strana quanto cicciosamente confortevole quella di trovarsi migliaia di miglia lontani da casa e riconoscere in una canzone un pezzo di te, della tua storia, che nessuno intorno potrebbe capire. E non importa se quella canzone ti piace o meno, o che quel cantante sia nella selezione del tuo I Pod, l’importante è la famigliarità decontestualizzata che ti regala.

L’ultima volta mi è accaduto a Providence, a Little Italy, un freddo cane e Vinicio che usciva dagli autoparlanti: la piazzetta era deserta e col Minki abbiamo anche cantato. Poi hanno messo Gigi D’Alessio e vabbè….

Ma la volta più spettacolare fu nel deserto giordano: prima Laurona Pausini, gentilmente concessa dal nostro autista e presentata come top star bella tra le belle (!), poi su un improbabile bus al confine con l’Iraq, in cui io e LaGozzì eravamo gli unici individui di sesso femminile. Ad un certo punto, tra una preghiera e l’altra, la radio ha trasmesso Caro Amore di De Andrè. Solo la melodia, ma ci è bastata.

Altre volte capita il contrario, ovvero una canzone che senti  fuori e che ti riporti in Italia come souvenir senza polvere. A me è successo a tradimento, in un ristorantino di NY. Era l’ultimo giorno e tenevo orecchie ed occhi super aperti per non dimenticarmi di nulla, o almeno provarci. Ad un certo punto sento questa canzone di chiara impostazione Eighties e, da maledetta figlia degli anni 80 penso: “Oh qui si che sono avanti! Chissà quando arriverà da noi…”. Era Lena con 99 Luft Balons, 1983 (http://www.youtube.com/watch?v=jQYQTFudrqc).

Adesso che è quasi Natale sento l’esigenza psicofisica di attorniarmi di Mariah Carey e George Michael, ma alla radio continuano a propinarmi la nuova canzone di DeeJay che tra l’altro fa pure schifo. Ieri, complice una connessione internet inesistente, sono andata all’Ipercoop per vedere se, almeno lì, potevo trovare un po’ di conforto natalizio: il nulla.

E per la cronaca, non ero in tuta…

lunedì 13 dicembre 2010

Felpe e Louboutin: a ciascuno il suo status


Sono quel tipo di ragazzina che è stata cresciuta con un cassetto doppio per ogni cosa: maglie comode e per la festa, pantaloni eleganti e con le toppe, scarpe da tutti i giorni e per la domenica. Non una questione di quantità, badate bene, ma di opportunità. Mia madre infatti, è fedelissima a quella religione che impone un codice binario di abbigliamento che recita così: dentro casa – fuori casa. Fu così che sei anni di vita in piena campagna sbilanciarono inevitabilmente il mio look verso una tenuta comoda, pratica e con cui, soprattutto, potersi sporcare in libertà!

La parola chiave di questo personalissimo successo è una: Tuta. Due sillabe evocative per uno status che nel tempo ha acquisito più importanza dell’oggetto in se. La tuta è diventata infatti  una corazza dall’odore familiare, una divisa che grida “faccio quel cazzo che voglio!”, un simbolo di privacy gelosamente custodita.

Se però non vi chiamate Simona Ventura e il vostro buon gusto vi impedisce di aggirarvi ricoperte di ciniglia fluorescente (o affini), la tuta diventa un piccolo piacere personale da relegare a pochissimi luoghi convenzionalmente riconosciuti come portatori sani di fitness.

A meno che… a meno che non apparteniate alla sempre più nutrita schiera dei precari a singhiozzo, inventori del riciclo professionale, sopravvissuti del contratto a progetto non rinnovato, saltato o perché no, promesso e mai realmente stipulato!

La casa è il vostro ufficio e il web l’Hampshire per le vostre battute di caccia verso nuovi esilaranti orizzonti di  sfruttamento lavorativo. E se in mezzo a cotanto stress non vi concedete un confortevole appeal, parola mia, siete fritti!

Eccomi dunque a condividere con voi brandelli di quotidianità, episodi di straordinaria follia e imprese cinematografiche di vita vissuta ai confini del plausibile. 

In attesa di abbandonare la mia divisa grigio topo per un paio di Louboutin…..